sabato 15 dicembre 2012

L’UDIENZA


Il mio avvocato mi ha lasciata da sola. Il mio caso non è abbastanza importante. Ha un’altra udienza in un’altra città. Mi assisterà sua moglie, anche lei avvocato. La incontro il mattino, qualche minuto prima dell’udienza, fuori dal tribunale. E’ quasi una bambina. Entriamo. Ecco l’aula. Il mio “ancora marito” è lì, con il suo avvocato, una che sa bene il fatto suo, una in gamba. Saluti formali. Sono a disagio, mi sento anche un po’ male. Ci sediamo in attesa che il giudice, una donna, si liberi dal precedente appuntamento. E’ già mezzogiorno passato. Come avvolta nella nebbia sento che il mio ex e il suo avvocato parlano di me e come intontita rispondo qualcosa sul fatto che mio marito ha un’altra donna. Il suo avvocato, in modo molto aggressivo, mi dice che anche io ho una relazione. COSA? Una relazione io? Ma cosa dice, non è proprio nelle mie corde, mai avuto una relazione con qualcun altro da quando ho conosciuto mio marito, fin da ragazzi. Cosa hanno inventato? Proprio si sbaglia, le rispondo e le dico che sono pronta a sottopormi a qualunque tipo di test, nessuno potrebbe mai provare il contrario. Vorrei continuare a dirle anche che problemi di salute e questioni di vario genere mi impediscono persino di desiderare di avere una relazione con un altro uomo, ma non ho più la forza e nemmeno la voglia di parlare.  
Esce qualcuno dallo studio del giudice e mio marito, con il suo avvocato, vengono chiamati. Entrano e spariscono per un tempo lunghissimo. Noi due sedute lì fuori, la giovanissima moglie del mio avvocato ed io, in attesa. Continuo a sentirmi male, mi sento confusa e non vedo l’ora che sia finita. Ho dovuto chiedere un permesso al lavoro e vorrei solo essere a casa. Poi finalmente la porta si apre. E’ il mio turno. La giudice fa entrare me e il mio avvocato, ma insieme a noi fa entrare anche mio marito e il suo avvocato. Ma come? Non abbiamo il diritto anche noi di essere ascoltate da sole, come loro poco prima? La giudice fa un accenno al fatto che è già tardi, forse ha fame. Io invece sento lo stomaco chiuso, vorrei fuggire da lì e non riesco neppure ad aprire la bocca per parlare. Non parla neppure il mio avvocato, o meglio, quella specie di sostituta del mio avvocato. Non chiede che anche a me venga riservato lo stesso trattamento, non chiede che possiamo anche noi parlare con il giudice senza la presenza di quei due, mio marito e il suo avvocato. Loro stanno lì, in piedi, appoggiati ad uno scaffale. Mi sembrano due avvoltoi pronti a volare sul moribondo per divorarlo. Ma perchè stanno lì? Forse è un processo? Di colpo mi sembra di essere un’imputata accusata di un crimine. Sembra proprio che tutti siano convinti che ormai non ci sia più niente da dire. Sembra che abbiano già deciso che sono colpevole. Ma di cosa? Non è una semplice udienza di separazione? Separazione consensuale, dovrebbe essere così, anche se con un avvocato come Perry Mason sicuramente avrei motivo di fare causa e vincerla e ottenere un bel po’ di denaro. Ma non siamo in un film americano. Non siamo neppure in America dove certe cose contano. Qui le donne separate hanno quasi sempre torto. Così credo che firmerò quello che vogliono, se non sarà proprio tremendo e la faremo finita. Non è un processo. Perchè allora quell’atmosfera di accusa, come se dovessero emettere una condanna? La giudice mi fa accomodare e quella specie di avvocato-bambina si siede accanto a me. Velocemente la giudice mi legge delle carte, c’è qualcosa che sembra dipingere mio marito come l’uomo più buono e generoso del mondo. Si parla di denaro e di casa. Il mio avvocato continua a tacere e io capisco che mi stanno attribuendo la parte della donna esigente, cattiva, colpevole di non so cosa. Ma se è sempre stato lui a trattare male me e la bambina, se è lui che ha avuto altre donne, se è stato lui a far sparire tutti i soldi che gli avevo affidato, anche quelli che gli avevo dato per nostra figlia. Ed è sempre stato lui a dire cose pesanti in casa di fronte alla piccola, ad avere atteggiamenti volgari e discutibili, ad evitare di insegnarle qualunque principio etico, ridendo dei miei sforzi per insegnarne qualcuno a nostra figlia, a non interessarsi minimamente di come cresceva, facendo dire alla bambina  già a quattro anni: “Papà non mi vuole bene”. Ed io a cercare di convincerla che non fosse così, per darle sicurezza, per non farla soffrire, perchè all’inizio credevo davvero che lui in qualche modo amasse sua figlia. Solo dopo ho capito che lei aveva ragione...Tutti i miei sforzi per tenere unita la famiglia, tutti i miei sforzi per convincere quell’uomo ad essere almeno un padre decente sono stati vani. Ora mi trovo qui, davanti ad un giudice che mi fa domande e appena accenno a rispondere, l’avvocato di mio marito risponde per me, contesta ogni cosa che dico appena apro la bocca, fa apparire me come una donna egoista, perfida, e lui come un santo, un pover’uomo che deve rifarsi una vita, costretto a tornare a vivere dai genitori. So bene che lui guadagna molto, ma quasi tutto in nero e che la mossa di chiedere la residenza presso i suoi è solo un modo per far credere di essere rimasto un poveretto senza casa. In realtà ha già un appartamento con un’altra, ma è furbo e non risulta all’anagrafe. Offrono una miseria per il mantenimento della bambina e quando parlo di cure costose che dobbiamo fare entrambe per una malattia di tipo ereditario, nessuno mi ascolta, neppure il giudice, che sembra invece avercela con me. Le faccio solo perdere tempo e deve andare a pranzo. Cosa le avranno raccontato di me in quel tempo lunghissimo che hanno trascorso insieme?  Vorrei piangere e urlare contro di loro, contro l’ingiustizia, ma cerco di trattenermi. Ho paura di dire o fare qualcosa di sbagliato e quello è un giudice, magari dico qualcosa che può essere interpretato come un oltraggio e allora mi trattengo. Non so cosa dire nè come parlare. L’avvocato-bambina tace, si limita a guardarmi con simpatia e compassione. Mi sento come un condannato all’ergastolo o alla pena capitale senza avere commesso alcun reato. Come la vittima di un errore giudiziario. Firmo qualcosa e ci alziamo. Saluti formali. Saluto l’avvocato-bambina e con la mente ancora annebbiata vado a casa. Qui racconto tutto a mia figlia e solo allora torno lucida e mi rendo conto della terribile ingiustizia di cui sono stata vittima. Ma ormai è troppo tardi.


Lo era allora. Troppo tardi, intendo. Lo era per avere un trattamento equo, giusto. ma non per avere giustizia. Non è tardi per punire i colpevoli. C’è qualcuno che potrebbe aiutarmi. Ho trovato il recapito. Non ho ancora capito bene come funzioni, ma sembrano fantastici. Solo, devo lasciar fare a loro, io non posso intervenire. Fornisco soltanto i particolari e i dati in mio possesso. E’ una cosa bellissima. Ci vorrà tempo, per non destare alcun sospetto, ma avrò pazienza. Ora so che qualcuno farà giustizia per me.


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